Genealogia cadorina

L’ALBERO GENEALOGICO DELLA POTENTE FAMIGLIA GALEAZZI DI VALLE

Antonio Barnabò e Pietro Da Ronco ricostruiscono lʼantico casato

di Bruno De Donà

Articolo tratto dal mensile Il Cadore pubblicato nel mese di dicembre2012

In Cadore non si accettò mai il riconoscimento del predominio di locali aristocrazie. Semmai, si può osservare, ci fu di fatto. Ebbe a tal riguardo ad osservare il Fabbiani che i nobili esigevano la menenzione dei propri titoli nei documenti ufficiali, ma a questa pretesa sempre si oppose il popolo cadorino sulla base del principio di eguaglianza. In merito alla spinosa questione si pronunziò definitivamente il Consiglio di Cadore il 27 giugno 1672, affermando che:

"niuno possa essere iscritto col titolo nobiliare, massime nell'arengo pubblico, né in qualsivoglia pubblico atto".

Quindi chiunque avesse voluto veder riconosciuta di diritto la Propria nobilità, doveva stabilirsi fuori dai confini del Cadore, perdendone di conseguenza la cittadinanza. Si ebbe così che i tanti casati che spiccarono nei secoli per prestigio e fama, la propria nobiltà non la consegnarono ad alcun "libro d'oro", che non fosse quello della storia che ne avrebbe annoverato i meriti o i demeriti via via acquisiti. Esaminando per altro la genealogia di alcune fra le dinastie cadorine più illustri, si nota che se in molti casi il ceppo radica fino a confondersi nella storia più antica del territorio, in altri l'origine non è locale. E' il caso, ad esempio, della famiglia Pellizzaroli di Santo Stefano o della Galeazzi di Valle. Ci occupiamo di quest'ultima. O meglio del ramo più illustre di essa: quello dei Galeazzi del Carmine.

E' don Giovanni Antonio Barnabò nella sua "Historia della Provincia di Cadore" a sottolinearne il rilievo, sostenendo che per importanza a Valle quella famiglia era seconda solo ai Costantini dei Leoni. Quanto alla denominazione "del Carmine", Barnabò precisava che:

“erano così denominati dal titolo della Chiesa a' loro palazzi contigua et a distintione delle altre case dell'istesso cognome divise in molti rami... Questi sono venuti da Cesena e fu loro stipite Andrea Galleazzo da Cesena che militando al servizio della Serenissima Veneta Repubblica in qualità di Colonnello fu anco a nome della stessa creato e spedito con patente di Capitanio nella fortezza ossia Castello di Bottestagno nei confini austriaci l'anno 1421”.

La rocca di Bottestagno costituiva all'epoca un autentico baluardo, la cui funzione era quella di sbarrare il passo ad eventuali aggressioni provenienti dalla via di Dobbiacco e tale difesa era per l'appunto affidata ad una guarnigione di armati agli ordini di un capitano o castellano. Tale incarico era prerogativa del governo veneziano, dietro concessione "sua sponte" del doge, e la scelta avveniva nell'ambito di una rosa di candidati. Il designato, una volta insediatosi, veniva a costituire una sorta di autorità politico-militare. Notizie più precise su tale Andrea da Cesena le desumiamo dalla "Cronaca Bellunese" (1383-1412) di Clemente Miari, tradotta nell'Ottocento dal lorenzaghese monsignor Giovanni De Donà. In una nota De Donà scrive quanto segue:

“Andrea da Cesena, forse figliuolo di quel Francesco da Cesena abitante in Conegliano, che nell'Aprile del 1404 condusse la prima volta a Belluno una mano di soldati veneziani, ci venne allora con esso quale conestabile di un drappello di fanti. Non dovette passare un anno, che vi sposò questa Zannina, sorella di Giovanni da Cilintino, che già era per dipendenza di famiglia o divenne per esso domestica in casa di ser Paolo da Miero, dove la lasciò co' suoi figlioletti quando, all'avvicinarsi degli Ungheri di Sigismondo, ripartì coi Veneziani. Perseverando poi sempre al servizio di questi, n'ebbe nel 1420, quando acquistarono il dominio come della restante Venezia così del Cadore, la castellania di Bottestagno nella valle del Boite ai confini dei pusteri”.

Andrea da Cesena morì intorno al 1430 e nell'incarico gli succedette il figlio Pietro, che assai probabilmente era nato a Belluno e vissuto con la madre in casa di ser da Miero. “Morì anch'esso a Bottestagno nel 1442” - soggiunge De Donà -, poco dopo avervi maritata la sorella Giacoma a Leonardo di Antonio soprannominato Barnabò q. Rigo da Ospitale accasato in Vallesella, e dopo aver acquistato non pochi beni, specialmente nel tenere di Valle di Cadore. Di lui rimase un figlioletto di nome Galeazzo, che dai tutori suoi fu messo ad abitare in una casa a Valle, e che divenne padre della famiglia, in Cadore cospicua, dei Galeazzi.

Figlio di Pietro fu dunque Galeazzo, il quale non più nella qualità di castellano, come lo furono il padre e il nonno Andrea da Cesena, bensì nelle vesti di ricco possidente, stabilì la propria dimora a Valle. Don Giovanni Antonio Barnabò nella sua settecentesca “Historia della provincia di Cadore” riferisce al proposito che:

morto anco Pietro suo figliuolo, e non godendo più la prerogativa delle sue cariche di colonnello e di Bottestagno, o desiderando di portarsi in contrade più divitiose e più fertili, si portò ad abitare in Valle di Cadore, dove per essere anco cittadino fermò la sua habitatione l’anno 1453 circa il quale tempo fu anche admesso et annesso nel numero dei Regolieri di Valle con comune soddisfattione per esser huomo civile et habile a tutti gli maneggi.Vent’anni dopo la sua admissione fu eletto capo cioè Marico di Valle.

Galeazzo sposò Caterina Costantini. Racconta ancora il Barnabò che Galeazzo ebbe due figli maschi, dai quali sarebbero derivate le diverse discendenze in cui la famiglia risultò successivamente divisa. Da Pietro, il primogenito discese Francesco, che fu padre di Gasparo, padre a sua volta di due figli: Bernardino - capostipite dei Galeazzi denominati “Galeazzetti” e Francesco, ceppo dei due rami dei Galeazzi denominati “del Carmine”. Affidandoci ancora alla narrazione del Barnabò, pare che questo tal Francesco versasse in condizioni estremamente misere tanto da doversi arrangiare in esercitii vili, meccanici et indecenti al suo stato. Ma sarebbe intervenuta una fortuita circostanza a ribaltarne la sorte. Si diceva che nel corso di uno dei suoi frequenti viaggi in quel di Serravalle gli fosse capitato un giorno di scorgere due banditi in fuga intenti a nascondere una valigia. Riuscito ad impossessarsene, avrebbe scoperto che era zeppa di denaro e pare sia stato fu quel cospicuo gruzzolo a costituire la base delle sue successive fortune. Comunque siano andate le cose Francesco Galeazzi dovette essere uomo sagace, alla cui intraprendenza avrebbe dato una grossa mano la sconsideratezza dei compaesani. Spiega al riguardo l’autore dell’Historia che a quei tempi la gente di Valle era dedita a bagordi e sregolatezze e ne avrebbe approfittato lo scaltro Galeazzi per acquistare a basso prezzo gran quantità di terreni e appezzamenti, per cui il suo patrimonio si andava ad incrementare a vista d’occhio. Insomma, per dirla col Barnabò per la sua industriosa diligenza nell’aumentar le sue grosse facoltà et arricchirsi con l’altrui volontaria privatione si può chiamar il cauto uccellatore perché habbia saputo tender le reti per prender l’incauti et ignoranti dei propri interessi. L’ascesa era iniziata. Anzi si poteva parlare di un riconquistato prestigio che ricollegava la schiatta all’antico prestigio lignaggio. Francesco ebbe due figli: Bartolomeo e Baldassarre al cui nome è legata la costruzione della chiesetta vicina alle loro residenze, dedicata alla Madonna del Carmine, la cui diretione - per loro precisa disposizione testamentaria risalente al 1675 - fu assegnata al più vecchio delle due case Galleazzi. Nel 1637 ci fu la visita del Patriarca di Aquileia Marco Gradenigo dal quale i due fratelli ottennero il giuspatronato per sé e per i loro discendenti in perpetuo. E’ interessante ricordare che i Galeazzi, avuta assicurazione che il giuspatronato non sarebbe stato messo in discussione dalla chiesa matrice di Pieve, si garantirono altre prerogative: che nel santuario si celebrasse una messa ogni mercoledì e a loro arbitrio si potessero officiare funzioni tanto nei giorni feriali che festivi, senza che i pievani potessero vantare alcun diritto di ingerenza. E benché questa prerogativa sia tale - si preoccupava di aggiungere prete Barnabò - hanno però il dovuto riguardo a’ tempi nostri li Galleazzi di trattenersi dal suono della Messa in alcune festività più celebri dell’anno per sola cortesia e generosità loro. Questa chiesa viene officiata nei giorni suddetti dal Pievano di Valle e celebra parimenti la Messa della settimana, avendo per questa grossa contributione di libbre cinque circa per cadauna dell’elemosina; con la servitù per questa del nonzolo della Chiesa Matrice. Devoti quanto accorti, Bartolomeo e Baldassarre Galeazzi avevano acquisito ben chiara l’idea del senso di appartenenza ad un casato prestigioso. E volevano che il livello dell’invidiabile posizione sociale raggiunta non venisse meno in futuro. Per questo dettarono norme rigorose che i posteri avrebbero dovuto rispettare scrupolosamente. Il loro timore era, in sostanza, che qualche discendente non dilapidasse il patrimonio accumulato. Decisero così nel 1651 di istituire un fidecommisso perpetuo di 12.000 ducati suddiviso in vari beni nel territorio di Valle affinchè anche nelle successive divisioni i posteri potessero avere la metà.

L’obbligo di conservare e trasmettere quell’eredità era tassativo. E la garanzia stava in una clausola: chi avesse trasgredito vendendo o alienando quei beni avrebbe dovuto pagare ai congiunti 500 ducati. Barnabò assicurava che anche ai suoi tempi la regola sopravviveva.

Tracciato un primo profilo genealogico della famiglia Galeazzi attraverso il racconto di Giovanni Antonio Barnabò, vediamo di approfondirlo con l’aiuto di don Pietro Da Ronco. In uno dei volumi manoscritti custoditi nella Biblioteca Cadorina di Vigo, troviamo un’ampia illustrazione dell’antico casato di Valle. Ritornando dunque a Galeazzo, figlio di Pietro, don Pietro Da Ronco riferisce che nel 1444 questi ottenne la cittadinanza cadorina e nel 1452, denominato “Galeazzo da Cesena”, era marigo di Valle. Il che vuol dire –spiega il sacerdote di Vigo - che in detto anno aveva già acquistata la cittadinanza anche di Valle, divenendovi “vicino” o “regoliere”, come regoliere era stato creato Pietro suo padre nel 1439. Il 7 maggio 1474 concorse a formare il Laudo di monte della Regola di Valle. Galeazzo ebbe in moglie - a conferma di quanto asserito dal Barnabò - Caterina figlia di Girolamo q. Zuliano q. Pietro q. altro Zuliano q. Gregorio dei Costantini d’Ampezzo, nipote ex patre del Giangregorio stipite dei Costantini di Valle. Da questa unione nacquero vari figli:

‣ Pietro, che ebbe un’unica figlia, Giovannina, che nel 1517 si maritò in secondi voti in Pietro Romanelli di Conegliano; Rodolfo, che nel 1486 e nel 1504 era centenaro di Valle ed ebbe due figli, Galeazzo e Antonio, nei quali si estinse la discendenza; Alessandro, detto “Sandre”, capostipite dei Galeazzi detti “de Sandre”, il quale nel 1498 e nel 1508 era giurato della Comunità; Bortolazzo, che viveva ancora nel 1520 e fu padre di due figli Francesco detto “Ito” e Girolamo.

‣ Da Francesco (Ito) nacquero Giovanni Maria e Gasparino; quest’ultimo sposò una Maria che gli diede Bernardino, Giovanna, Fosca e Francesco, che dalla moglie Catarina ebbe Martino e Gio. Galeazzo (morti entrambi senza successione) nonché Baldassarre e Bortolo.

‣ Baldassarre si accasò in Andreana Costantini e Bortolo in Caterina Thiera di Venezia, sposando poi in seconde nozze Lucia Costantini di Marc’Antonio. Rieccoci dunque ai due fratelli, che fecero erigere nei pressi del loro palazzo la chiesa del Carmine, il cui nome identificò i loro discendenti. Val qui la pena di fare una digressione soffermandosi sulla discendenza dei Galeazzi “de Sandre”, tra le più cospicue derivazioni della famiglia. Lo facciamo grazie alla ricostruzione genealogica effettuata da Roberto Piccioli, medico di Fano e suo figlio Massimiliano, i quali hanno inserito in un sito internet http://www.piccioli.com/genealogia/ i risultati delle loro pazienti e documentate ricerche relative ai casati di Valle di Cadore.

Risaliamo pertanto a Giovanni “de Sandre”(1599-1661), marito di Tarsilia Barnabò (1609-1684), padre di Sandro (1634) e Osvaldo (1640). Seguiamo la discendenza di Sandro. Da lui, maritatosi con Maria Maddalena Chiamulera, venne un Giovanni (1679-1728), che da Lucia (di casato sconosciuto) ebbe due figli, Alessandro (1709-1765) e Francesco (1719); Alessandro, marito di Caterina Giovanna Gerardis, ebbe sei figli: Giambattista Rocco, Pietro, Andrea, Giovanna, Lucia e Antonio. Quest’ultimo (1746 - 1814), lasciò discendenza in sei figli: Alessandro, Cattarina, Andreana, Giovanna, Maria Atonia e Giambattista (1787-1861) che aveva preso in moglie Maria Atonia Giacchetti la quale gli diede: Lucia, Maria Grazia, Maria Giovanna, Antonio Grazioso, Santo Francesco e Agostino (1822 - 1903). Agostino prese in moglie Maria Giovanna Donà (o De Donà) di Lorenzago (1845-1891), figlia di Matteo Donà commerciante di legname in Tirolo e sorella di Venanzio, storico del Cadore.

La coppia ebbe quattro figli: Maria Luigia, Antonio Giuseppe, Giovanna e Giovanni Raffaele. Quest’ultimo, nato nel 1876, nominato cavaliere ufficiale della Corona d’Italia, fu podestà di Valle. Morì suicida il 15 marzo 1932. Il ramo disceso da Alessandro “detto Sandre”, come si legge nei manoscritti di Da Ronco, cui sopra si è accennato, vanta un Vicario del Cadore nella figura di un Francesco, figlio di un Andrea, dottore in ambo le leggi, che resse l’incarico tra il 1774 e il 1766. Aveva preso in moglie Augusta q. Giulio Pagani di Belluno.

Ritorniamo a questo punto alla cronaca di Giovanni Antonio Barnabò. Il quale riferisce che Baldassarre del ramo “del Carmine” fu uomo pacifico e interessato all’astrologia, dedicandosi per ore allo studio dei pianeti: narrasi che essendo gravida Adriana sua consorte d’un suo parto maschio, et essendo sull’estremo del partorire, andasse all’aperto per vedere qual pianeta dominasse in quel punto ch’usciva alla luce quel parto, e veduta la presenza di stella molto contraria corse subito ad avvisare la partoriente se mai potesse fermare per un solo momento di mandar fuori il parto, il che essendo impossibile, dibattendo le mani per lo sdegno disse: Oimè misero, questo figlio che ora mi nasce ha da essere la macchia e la ruina di casa mia, perché deve ammazzare l’altro suo fratello già nato. Il vaticinio si sarebbe avverato. Al culmine di una insanabile controversia, il 26 luglio 1706, Gaspare, il fratello minore, avrebbe ucciso il maggiore Osvaldo, ultrasettantenne, a pugnalate. Il che, sottolinea Barnabò, macchiò in perpetuo l’immagine di quel ramo del casato annoverato tra i primi di Valle.

© 2012 Il Cadore

Senza il permesso scritto dell'Editore de Il Cadore sono vietati la riproduzione anche parziale, in qualsiasi forma e con qualsiasi mezzo elettronico o meccanico.